ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

Intervista a Francesco Molinari realizzata da Massimo De Luca per Golf Digest.

Quando è scoppiato il tuo amore per il golf?

Non avevo ancora cinque anni quando cominciai a tirare i primi colpi. Nella famiglia Molinari il golf era di casa. Giocavano i miei nonni, soprattutto quelli paterni, e i miei genitori che sono arrivati, tutti e due, a essere one-digit-handicapper. Però al Golf Club Torino, il loro Circolo (che poi è diventato il mio e di mio fratello Edoardo), i bambini non erano ammessi fino all’età di otto anni. Perciò Edoardo e io sfruttavamo la possibilità di praticare quando, in primavera e in estate andavamo al Sestriere, dove c’è un campo a 18 buche. Per cominciare a frequentare stabilmente il Golf Club Torino ho dovuto aspettare. Intorno ai 10 anni ho preso l’handicap, a 12 ero già sceso intorno al 12; a 16 anni ero scratch.

Chi è stato il maestro che ha impostato il tuo swing?

Ho imparato tutto da Sergio Bertaina, il coach del Golf Torino, che mi ha seguito per tutta la mia carriera da amateur e anche nelle prime stagioni sul Tour europeo fino al 2006, anno della mia prima vittoria da pro, all’Open d’Italia. Trasferitomi a Londra nel 2009, ho cominciato a lavorare con Denis Pugh.

Quando hai cominciato a realizzare di essere veramente bravo e di poter immaginare una carriera da pro?

Ai tempi dell’Università. Finché eravamo al Liceo, Edoardo e io, potevamo praticare soltanto il mercoledì pomeriggio e nei week-end, partecipando a lezioni collettive. Mio padre però è sempre stato chiarissimo: prima ci saremmo dovuti laureare, poi avremmo potuto decidere sul nostro futuro. Su questo non transigeva. E così è stato: io mi sono laureato in Economia, Edoardo in Ingegneria. Papà si è sempre preoccupato della nostra possibilità di costruirci un futuro professionale se nel golf non fossimo riusciti ad avere successo.

Però hai sostenuto l’esame di laurea discutendo una tesi sul golf.

Sì. Il relatore è stato un professore golfista, anche lui “one digit”, socio del mio stesso Circolo. Ho elaborato uno studio sull’organizzazione aziendale dello European Tour, delle sue varie divisioni. È stato molto apprezzato.

Non è, allora, che stai pensando a un futuro da dirigente quando smetterai di giocare? Keith Pelley deve preoccuparsi?

No, no (sorride). Intanto mancano molti anni, spero, prima di smettere. Adesso non saprei dire come sarà il dopo.

Quali sono stati i tuoi risultati più importanti da dilettante?

Ho vinto la Sherry Cup nel 2004 a Sotogrande, in Spagna (l’hanno vinta, fra gli altri, anche Garcia, Harrington e McIlroy) e sono arrivato in semifinale al British Amateur al Royal Troon, in Scozia nel 2003. Di quella sconfitta contro Gary Wostelnholme, ho un ricordo particolare: mio fratello mi faceva da caddie, il coach della Nazionale italiana Dilettanti Giorgio Bordoni (per me quasi un fratello maggiore) ci seguiva lungo il percorso. Il sogno di tutti e tre era, vincendo, di guadagnarci il diritto a partecipare al Masters. Persi alla 18, strinsi la mano al mio avversario (che aveva 23 anni più di me) e con Edoardo e Giorgio, seduti sui gradini della club house cominciammo tutti a piangere a dirotto. Il sogno era sfumato e, in quel momento, non avrei immaginato che solo tre anni dopo, sarei stato io ad accompagnare come caddie al Masters mio fratello che, avendo vinto l’US Amateur 2005 a Merion, giocò due round con Tiger Woods, campione in carica. Purtroppo “Gio-Gio” (come noi chiamavamo coach Giorgio) nel 2013 è morto improvvisamente nel sonno, ad appena 48 anni. Nei momenti bellissimi seguiti alla vittoria dell’Open Championship a Carnoustie, mi è tornato in mente proprio quel ricordo: di Edoardo, di Giorgio e di quel pianto dirotto. Certe cose non si possono dimenticare.

La vittoria di Edoardo all’US Amateur 2005 ha rappresentato uno stimolo in più per te?

Fu bellissimo. Non c’è mai stata invidia fra noi. Abbiamo sempre tifato l’uno per l’altro. E trovarci insieme nella squadra di Ryder Cup 2010 è stata una grande emozione. La gente cantava “Two Molinaris, there are just two Molinaris…”. E perfino il Principe Carlo d’Inghilterra, in visita alla squadra europea, intonò quel motivo. Facendo da caddie a Edoardo al Masters 2006 ho conosciuto per la prima volta Tiger Woods. Lui chiese a mio fratello chi fosse il suo caddie. Edoardo gli spiegò che ero già professionista (e fra l’altro proprio un mese dopo avrei vinto l’Open d’Italia a Tolcinasco, il mio primo successo professionistico). Poi, come si sa, le strade mie e di Tiger si sono incrociate spesso, soprattutto quest’anno fra Carnoustie e la Ryder Cup a Parigi.

E in queste ultime occasioni vi siete scambiati qualche impressione?

Quest’anno abbiamo avuto un calendario di gare molto simile, perciò ci siamo ritrovati spesso. Si è congratulato più volte con me, sia all’Open che al Quicken Loans, al Bridgestone Invitational, al PGA. A Parigi c’è stato uno scambio di congratulazioni prima e dopo la cerimonia di chiusura. Ma l’ho visto veramente stanco, al Le National: credo che il suo tanto atteso ritorno alla vittoria di appena pochi giorni prima al Tour Championship lo avesse svuotato. Ho letto da qualche parte che adesso io sarei diventato il suo incubo. Non scherziamo. Per un campione grande come lui…

Quando Costantino Rocca l’aveva battuto in un singolare di Ryder Cup a Valderrama nel 1997, tu avevi 14 anni: ricordi qualcosa di quel match?

Sì, certo. Edoardo e io siamo cresciuti nel mito di Costantino Rocca. È stato il campione che ci ha ispirato. Seguivamo le sue imprese in televisione. Del suo match con Tiger a Valderrama ho potuto seguire le ultime due buche, con quello straordinario ferro 3 tirato direttamente in green dal bosco della 16 che chiuse il conto con Tiger. Invece quando all’Open Championship di St Andrews nel 1995 imbucò alla 18 quel famoso birdie-putt da 60 piedi per andare al play off con John Daly, Edoardo e io lo seguivamo dalla tv di una pizzeria in montagna al Sestrière in compagnia del nostro coach Bertaina e di un altro allenatore, Francesco Guermani. Quando la pallina finì in buca, esplodemmo. In pizzeria ci guardavano come matti. Poi, purtroppo, Costantino perse al play-off. Per noi è stato un esempio. A Parigi era dietro le corde a tifare per me. È venuto ad abbracciarmi al putting green. Era commosso. È stato un grande campione ed è una grande persona.

Cosa rende il golf in Italia differente da quello degli altri Paesi?

È l’Italia stessa a fare la differenza. I campi sono belli in tutto il mondo. Ma intorno ai nostri campi c’è la storia, la cultura, i paesaggi, il cibo, lo stile.

Che impatto pensi possa avere il tuo straordinario 2018?

Penso che tanti ragazzi italiani abbiano seguito in televisione questa bellissima stagione e spero che abbia fatto su di loro lo stesso effetto che ebbero per me le vittorie di Rocca. Noi abbiamo già tanti giovani amateur fortissimi, che vincono in campo internazionale. Abbiamo bisogno però di aumentare il numero dei giocatori proprio fra i ragazzi.

Hanno senso gli stereotipi sulle diverse caratteristiche dei giocatori a seconda della loro nazionalità in Europa? Cioè: nazioni diverse “producono” giocatori diversi?

Io non vedo grandi differenze. Non c’è una corrispondenza precisa fra giocatore e Paese. È vero che ogni Paese ti forgia in maniera diversa da un altro. Ma io, per esempio, sono considerato “poco italiano” per il mio comportamento controllato in campo. In realtà, esistono differenze all’interno del singolo Paese. Io sono piemontese, del Nord Italia: e noi piemontesi siamo caratterialmente diversi dai romani o dagli italiani del Sud.

Ha fatto notizia il commento del tuo collega Wes Bryan, secondo il quale tu sogni, a carriera finita, di andare al bar, leggere tanti libri, navigare e chattare via internet. Ma è proprio così?

In realtà è stato uno scherzo fra noi. Giocavamo insieme a Shangai e, fra un colpo e l’altro, gli ho parlato, ridendo, dei miei progetti per la pensione. Probabilmente l’aria della Cina, il trovarsi così lontano da casa, faceva venire un po’ di nostalgia. Ma, insomma… c’è tempo per pensare alla pensione.

Come ti sei ripreso dai momenti di crisi della tua carriera?

Come tutti ho avuto degli alti e bassi, ma mai troppo bassi per fortuna. Dal 2012 al 2016, pur ottenendo molti piazzamenti, non ho vinto niente. In quel periodo credo di aver fatto la cosa giusta: ho deciso di analizzare a fondo la situazione con le persone a me vicine. Lo swing coach Denis Pugh, il mio manager Gorka Guillen, il performance coach Dave Alred, mia moglie Valentina. In questi casi non hai mai la certezza di fare la cosa giusta, decidi anche un po’ d’istinto. Però abbiamo verificato che nell’ultimo anno e mezzo sul green avevo avuto troppi alti e bassi rispetto agli altri settori del gioco dove ero comunque molto regolare. Perciò ho cominciato a lavorare dalla primavera scorsa con Phil Kenyon che, fin dal primo giorno, ha modificato completamente la mia postura sul putt. I risultati sono arrivati.

In cosa consiste il lavoro con il performance coach?

Lavoro con lui da due anni e mi abitua costantemente a sostenere la pressione. Con lui, che aveva collaborato con Luke Donald quando arrivò al primo posto nel mondo e con Jonny Wilkinson, leggenda del rugby inglese, ogni colpo in allenamento è finalizzato a un obiettivo: nel gioco lungo, nel gioco corto, nel putt. Se manco l’obiettivo stabilito, devo ripetere il colpo fino a riuscirci.

Il tuo autocontrollo è diventato proverbiale: sulle ultime buche dell’Open Championship a Carnoustie come nei cinque match vinti in Ryder Cup. Che consigli daresti a chi vuol tenere sotto controllo la tensione?

Dave Alred mi aiuta a sentirmi sempre pronto. Prima andavo in panico quando il gioco non rispondeva. Adesso resto controllato. Nei giorni della Ryder c’era molta più adrenalina che a Carnoustie, ma ci sono riuscito. Quanto ai consigli, bisogna andare un po’ a tentativi. Trovare automatismi che aiutino la concentrazione. E ognuno può avere i suoi. Io provo a staccare mentalmente fra un colpo e l’altro per non sovraccaricarmi di tensione.

Pugh, Alred, Kenyon, Gorka: Denis Pugh sostiene, però, che il vero capo della squadra è tua moglie, Valentina.

Mia moglie non ha mai giocato a golf e questa, paradossalmente, è una fortuna perché mi offre un punto di vista diverso, direi “neutrale” su tante decisioni da prendere, anche nella vita. È stata lei a proporre di trasferirci a Londra nel 2009 dove, nel 2006, aveva seguito un Master innamorandosi della città. Londra, per me che devo andare continuamente negli Stati Uniti, è più comoda per i viaggi e mi consente di lavorare a contatto con Denis Pugh al Wisley Golf Club, nel Surrey, a meno di un’ora da casa. Mi hanno festeggiato molto, al Club, soprattutto dopo la vittoria a Carnoustie. Addirittura hanno pensato di propormi la presidenza del Circolo.

Tornando alla Ryder: perché, secondo te, gli Stati Uniti sono crollati e quando voi della squadra avete cominciato a capire che stavano cedendo?

Difficile individuare una causa specifica. Sicuramente la preparazione del campo, così “tricky”, è stato un fattore importantissimo. Ma non bisogna dimenticare che avevamo perso tutti e tre i primi incontri del venerdì mattina e solo la vittoria con Fleetwood su Woods e Reed ha evitato uno 0-4 che sarebbe stato pesantissimo. Lì c’è stata la nostra reazione con il 4-0 del pomeriggio. Non ci siamo illusi, però. I più esperti di noi temevano la controreazione americana. Però, col passar del tempo, prendevamo sempre più fiducia e ci sentivamo sempre meglio su quel campo che molti di noi conoscono. Il momento-chiave è stato il sabato mattina, quando solo Thomas e Spieth hanno conquistato un punto. Vedevamo che, probabilmente, loro erano più stanchi di noi. Anche perché quasi tutti loro erano stati impegnati fino all’ultimo nella FedEx. Però, si sa come è la Ryder… E infatti, dopo il 2-2 del sabato pomeriggio, loro hanno tentato ancora una rimonta nei primi singolari della domenica. Ma abbiamo reagito bene.

Ma qual è stata la chiave di un successo così largo?

Partiamo da un punto: secondo me, questa è stata la squadra europea più forte in cui abbia giocato. Se il team Europe è tecnicamente forte, può sfruttare anche il vantaggio di essere “più squadra”. Perché noi europei ci conosciamo tutti da ragazzi; abbiamo cominciato a giocare gli stessi tornei giovanili, poi ci siamo ritrovati sull’European Tour e sul PGA Tour. Il clima all’interno della squadra è più gioviale, più amichevole. Gli americani sono più individualisti. È un paradosso, perché l’America è una nazione, con una sola lingua, mentre noi siamo di tanti Stati diversi. Ma è così.

Che effetto ti ha fatto l’invenzione del termine “Moliwood” con relativo coro dedicato? Ed è vero che sei stato tu a presentare a suo tempo a Tommy la sua futura moglie?

La parola “Moliwood” e i cori su di noi sono stati una bella sorpresa: non me l’aspettavo. Era divertente e ci dava la carica. Tommy mi ha spiegato che era l’adattamento di un coro da stadio del calcio inglese dedicato a Yaya e Kolo Touré, I due fratelli che sono stati per qualche anno le colonne del Manchester City. Con Fleetwood siamo amici da anni. Sua moglie, Claire, era la mia agente nella società di management Hambric Sports quando si sono conosciuti. Lei ha dei cugini a Londra e quando vengono a trovarli, se io non sono negli Stati Uniti, cerchiamo di passare del tempo insieme. Il nostro rapporto di amicizia è stato fondamentale per l’affiatamento necessario nei match di doppio. E poi ci siamo sempre trovati bene al Le National: lui ci ha vinto l’Open di Francia 2017, io sono arrivato tre volte secondo.

Si è parlato molto di un ipotetico alterco fra Dustin Johnson e Brooks Koepka proprio nelle sale del Team Europa. Hai visto qualcosa?

Per tutto il tempo che sono stato lì, non è successo niente. Ma io non sono stato fra gli ultimi ad andar via. Anche perché, a un certo punto, un operatore dell’European Tour Tv è venuto a proporre a me e Tommy di girare quel famoso video a letto con la Coppa fra di noi. L’idea ci è piaciuta e siamo andati in camera per le riprese.

Nel 2016 un tweet contro il pubblico americano postato dal fratello di Danny Willett aveva creato molte polemiche. Come hai reagito tu quando tuo fratello Edoardo ha a sua volta postato un tweet prendendo un po’ in giro Reed per il suo scarso rendimento (“Capitan America deve aver perso il passaporto. Non c’è traccia di lui a Parigi…”.)?

Quel tweet di mio fratello in realtà, l’ho letto solo il giorno dopo. Ma non mi sembrava così polemico. Era soprattutto scherzoso. E poi Patrick ha un carattere forte. Sa provocare ma sa anche stare al gioco. Non ci sono state conseguenze.

Da torinese hai potuto vivere l’esperienza delle Olimpiadi invernali del 2006?

Nella prima settimana delle Olimpiadi invernali 2006 ero in Malesia per un torneo. Quando sono tornato le ho guardate un po’ alla TV ma non ho avuto tempo per seguirle di persona. Peccato perché, fra l’altro, Edoardo e io abbiamo praticato sci agonistico al Sestrière, quando io avevo 11 anni e lui 13. Slalom gigante. Ma era più forte lui.

Ti aspetti che l’edizione 2022 della Ryder Cup a Roma possa rappresentare qualcosa di diverso da tutte le altre?

Quando la Ryder si gioca fuori del Regno Unito, è già qualcosa di diverso. E quella di Roma sarà appena la terza, dopo Valderrama 1997 e Parigi 2018. Sarà sicuramente speciale perché Roma è unica. Quest’anno noi, come squadre, non abbiamo nemmeno visto Parigi. Tutto succedeva lì, attorno al Le National. La cena di gala si è tenuta alla Reggia di Versailles. Credo invece che nel 2022 vivremo un po’ di più la città.

Anno 2020: nella squadra europea siete qualificati di diritto tu, Fleetwood e tuo fratello Edoardo. Con chi giochi i doppi?

(Ride) Beh, intanto sarebbe bellissimo; ma certo non sarebbe facile decidere. Però con quei risultati ottenuti in coppia con Tommy, credo che neanche mio fratello ci può separare.

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