ST LOUIS, MO - AUGUST 09: Francesco Molinari of Italy waits to play his tee shot on the 17th hole during the first round of the 100th PGA Championship at the Bellerive Country Club on August 9, 2018 in St Louis, Missouri. (Photo by David Cannon/Getty Images)

Carnoustie, nel 1953, sancì il suo trionfo nell’Open Championship. L’ennesimo riscatto per un uomo che, ad appena nove anni, aveva assistito al suicidio di suo padre e aveva dovuto affrontare subito le durezze di una vita da orfano. Ma la tenacia e la determinazione lo portarono ai vertici del golf mondiale, con una carriera che sconfina nel mito

di John Barton

Una sera del 1922 Chester Hogan, un fabbro del Texas rurale, stava litigando con la moglie.

A un certo punto se ne andò in un’altra stanza, estrasse un revolver calibro 38 dalla sua borsa, e si sparò. Secondo alcuni resoconti suo figlio di nove anni, Ben, era nella stanza con lui.

Cosa aveva visto Ben Hogan? Aveva assistito al suicidio? Qual è stato su di lui l’impatto di questo trauma? Del crescere senza un padre? Del sapere che l’uomo che l’aveva messo al mondo, l’uomo che idolatrava, era giunto all’irrevocabile conclusione che la vita non valeva la pena di essere vissuta?

I figli di genitori morti suicidi sono spesso soggetti a depressione, disadattamento, e sindrome da stress post traumatico. Ma il problema più urgente a quel tempo per gli Hogan era la povertà in cui erano improvvisamente precipitati.

Allora il giovane Ben si mise a lavorare: vendeva giornali per aiutare la famiglia a pagare le bollette. Poi un giorno, all’età di undici anni, camminò per oltre dieci chilometri fino al Glen Garden Country Club, perché aveva sentito dire che si poteva guadagnare qualche soldo portando sacche da golf.

E fu così che il golf adottò Hogan.

I suoi bastoni divennero il suo martello, il tee di pratica la sua incudine. E riuscì a forgiare qualcosa di meraviglioso. Ben Hogan divenne Hogan. La sua storia ha sconfina nel mito. Non era un talento naturale come Sam Snead o Byron Nelson, ma la pura tenacia e la determinazione lo portarono comunque ai vertici di questo sport. Per anni ha dovuto lottare contro un gancio disarmante che lui soleva descrivere come “un serpente a sonagli nella tasca”. Non ha vinto un torneo prima dei ventisette anni, e con la carriera interrotta dalla Seconda Guerra Mondiale (Hogan ha servito nell’aeronautica militare americana), non ha vinto un major prima dei trentaquattro. Tre anni dopo, uno scontro frontale con un autobus della Greyhound lo ha quasi ucciso. Con le gambe in pezzi, i medici si chiedevano se avrebbe mai camminato di nuovo. L’anno dopo vinse lo US Open.

Nel 1953 vinse il Masters con un vantaggio di cinque colpi e lo US Open con un vantaggio di sei. Poi fece la sua unica apparizione al British Open, a Carnoustie, dove in silenzio studiò pezzo per pezzo uno dei campi da golf più duri e impietosi, migliorando il suo punteggio giorno dopo giorno, fino alla vittoria per quattro colpi. È stato l’apice di una carriera straordinaria. Tormentato dai dolori, Hogan quell’anno partecipò soltanto a sei tornei, e ne vinse cinque. Al suo ritorno da Carnoustie venne celebrato con una parata in suo onore a Broadway, e poi si ritirò in Texas, dove rimase per gran parte del resto della sua vita. Non era mai riuscito a sopportare a lungo le luci della ribalta.

Per molti, Hogan rappresenta l’icona del vero golfista e del vero uomo. Faccia pulita e rasata, vestiti immacolati, scrupolosa onestà. Modesto. Lavoratore. Disciplinato. Stoico. Un lupo solitario, che combatte contro la natura e gli elementi, sia quelli fuori che dentro di lui. Il golf va fiero delle sue lezioni di vita. È una tribù con i suoi anziani e le sue regole. Da modelli di vita come Hogan i ragazzi imparano a diventare uomini (qualcosa che molti di loro non imparano a casa: un ragazzo americano su tre, come l’adolescente Hogan, non vive con il padre). Imparano che il gioco è duro, e le ricompense poche. Quel che sembra un cattivo rimbalzo può invece rivelarsi un buon rimbalzo, e viceversa. Gioca la palla come si trova. Nessuno ti ha visto inavvertitamente infrangere una regola? Autoinfliggiti una penalità. Prendi la mira. Non ti lamentare. Non ti giustificare. Hai un problema? Risolvilo. “Scava nella polvere del campo pratica”.

Eppure Hogan era notoriamente freddo e taciturno. Rifuggiva la conversazione; anzi, rifuggiva da qualsiasi tipo di comunicazione. Odiava concedere interviste. Il suo sguardo glaciale poteva impietrire un cacciatore di autografi. Da ragazzino, Hogan incombeva come una sorta di severa eminenza grigia sui miei primi tentativi di diventare un adulto. Assomigliava a ogni insegnante severo che avessi mai avuto, a ogni rigido segretario di golf club inglese ex militare che avesse mai rimproverato me e i miei amici per una qualche trasgressione incredibilmente insignificante, a ogni antenato vittoriano senza nome che ti fissa senza l’ombra di un sorriso da una vecchia fotografia. Ho letto in una delle autobiografie di Jack Nicklaus che Hogan gli piaceva perché non era espansivo: dal punto di vista di Nicklaus l’espansività era un difetto. Il mio conseguente tentativo di non essere espansivo, a suon di monosillabi, è durato poco.

Aveva scelto di non avere figli, e si dice che avesse costruito una casa con un’unica camera da letto per evitare che eventuali ospiti rimanessero per la notte (e anche se è una storia apocrifa, è significativo che si senta raccontare così spesso). È celebre poi la storia del Masters in cui il suo compagno di gioco, Claude Harmon, riuscì a fare buca in uno alla 12, e Hogan non parve nemmeno accorgersene. Mentre lasciavano il green Hogan gli disse, “Sai Claude, questa è la prima volta che ho fatto birdie a quella buca”. Si trattava di dissociazione oppure semplicemente di maleducazione?

In un’intervista del 2015, Arnold Palmer ricordò l’atteggiamento perennemente distaccato di Hogan, che non l’ha mai chiamato per nome. “La cosa mi infastidiva”, ha ammesso. “E non ne ho mai veramente capito il motivo. Ma fino al giorno in cui è venuto a mancare, non ricordo che mi abbia chiamato per nome nemmeno una volta”.

“Ben era un mistero per molti, forse anche per sé stesso”, raccontò Byron Nelson al biografo di Hogan, James Dodson. “Per qualche motivo, non so quale, gli andava bene così. Non voleva aprirsi agli altri”. Lo psicoanalista austriaco Alfred Adler sosteneva che gli uomini spesso compensano la paura di essere vulnerabili con un eccesso di aggressività e competitività che fanno parte dello stereotipo maschile. Ciò che il suo collega psicoanalista Carl Jung definisce anima, il femminile, viene negato, mentre si esalta l’animus (secondo Jung ogni persona, per essere completa, deve integrare entrambi). Il ragazzo-uomo è puro animus, animosità, spoglio di tutto ciò che può essere considerato anima, la manifestazione di emozioni, creatività, compassione, collaborazione.

Adler la definiva la “protesta virile” e la considerava una forza distruttiva lungo il corso della storia, alla base, ad esempio, della nascita del fascismo nel Ventesimo secolo. Un leader per essere preso sul serio deve apparire privo di empatia, di emozioni, intransigente, inflessibile. Quando gli uomini si incontrano, negli spogliatoi, negli strip club, nei film ambientati in prigione, spesso si scatena una sorta di competizione maschile. Un viaggio tra amici si trasforma in una versione censurata di Fight Club. Il più macho è il più spaventato.

Un anno in cui il British Open si disputava al Royal Lytham, sono andato con altri giornalisti sportivi alla vicina località balneare di Blackpool, dove si trovano le più grandi montagne russe del Regno Unito. Abbiamo fatto la fila, pagato il biglietto, e poi ci siamo fatti sballottare di qua e di là su quella giostra da brivido. “È stato orribile”, ha detto uno di noi mentre scendevamo, le gambe che tremavano. “Lo so”, ha detto un altro. Ci siamo resi conto che nessuno di noi voleva davvero andare su quelle infernali montagne russe, ma nessuno voleva nemmeno essere il primo a tirarsi indietro. Nessuno era stato abbastanza uomo da dire no.

La protesta virile di Hogan era un lamento silenzioso. Il suo distacco e la sua chiusura agli altri sono comprensibili. Meno comprensibile è come queste caratteristiche siano diventate un tratto auspicabile di un modello di mascolinità. Gli uomini sono tre volte più a rischio dipendenza e tre volte più a rischio suicidio rispetto alle donne, e la loro vita media è cinque anni più breve rispetto a quella delle donne.

Le lezioni del golf sono per la gran parte positive. Ma il golf può anche insegnare una sorta di conformismo noioso e conservativo basato sull’autocontrollo, sull’intolleranza del diverso, sul riserbo nelle relazioni personali. I golfisti sono cavalieri solitari in pantaloni color kaki.

Diciamo ai nostri figli di essere forti. Non si piange nel baseball. Non si piange da nessuna parte. Si insegna ai ragazzi a non provare nulla (eccetto la rabbia, che è un’emozione virile); a parlare poco; a essere ingranaggi sacrificabili in una macchina senza amore. Creiamo dei solitari insensibili e muti: John Wayne, Charles Bronson, Clint Eastwood. Travis Bickle, Timothy McVeigh, Ted Kaczynski. Il tizio che lavora nel reparto informatico. Creiamo padri assenti. Cavalchiamo verso il tramonto. Molti degli uomini che hanno fatto tutto ciò che ci si aspettava da loro a metà della loro vita finiscono sul lettino dello psicologo perché si sentono come dei morti che camminano. Sulla carta sono storie di successo, ma nella realtà sono dei fantasmi. La freccia di Cupido li trapassa da parte a parte. Era la notte prima del giorno di San Valentino quando Chester Hogan si tolse la vita. Si sparò al cuore.

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