Si dovrebbe giocare più spesso su campi belli e difficili come Portrush, dove Shane Lowry ha vinto l’Open Championship, primo Major della sua carriera. Su un campo così, e magari anche in condizioni estreme come è capitato nel giro finale, emergono i valori di chi sa giocar bene davvero, di chi sa unire potenza e sensibilità, mentre gli “scienziati” vanno, e giustamente, in crisi. Sto parlando, come avrete capito tutti, dei tipi alla De Chambeau, che studiano la rarefazione dell’area, le percentuali millimetriche delle pendenze, il coefficiente di restituzione dell’asta se lasciata dentro la buca e per tirare un colpo ci mettono una vita.

 

Un fuoriclasse come Tom Watson, senza nemmeno sapere cosa sia un algoritmo, è risultato il miglior giocatore di links dei tempi moderni, pur essendo, da americano, nato e cresciuto sui parkland di casa sua, così diversi dagli aspri percorsi del Regno Unito. E, a quasi sessant’anni, stava per vincere ancora un Open Championship (sarebbe stato il suo sesto) se solo non avesse fatto tre putt alla 72esima buca di Thurnberry dieci anni fa, perdendo poi il play-off su quattro buche con Stewart Cink. E tutto questo praticando un golf classico e di talento, senza troppe astrusità. Al Senior Open di luglio, su un altro links spietato come il Royal Lytham St. Anne (che mi sono molto divertito a commentare in tv, vedendo lo splendido gioco di quei campioni intramontabili), ha annunciato il suo definitivo ritiro, anche a livello senior. Ritiene – ha affermato – di non avere più le armi per competere. Un peccato, perché con lui esce di scena un vero signore, oltre che un fuoriclasse.

 

I giocatori veri, come lui ieri, come Koepka oggi, giocano bene anche sui links, dove fantasia e strategia sono indispensabili. Un campo come Portrush non è mai uguale a se stesso da un giorno all’altro: di giro in giro bisogna reinventarsi scelte e tattiche. Chi non è in grado, naufraga come l’incredibile John Bradley Holmes, americano, che con l’87 dell’ultimo giorno è sprofondato dal terzo al 67° posto. Shane Lowry, che è un giocatore vero e completo, rappresenta in qualche modo un anello di congiunzione fra le generazioni: ha la potenza tipica di questi anni ma anche la manualità dei grandi classici. Mi è piaciuto molto e credo che farà parlare ancora tanto di sé.

 

L’ultimo giro ha innalzato Molinari all’11° posto, esito divenuto impronosticabile dopo i primi giri. Lascia una sensazione agrodolce quel piazzamento: evidentemente Francesco, pur favorito dalle condizioni meteo della mattina della domenica, avrebbe potuto fare molto meglio, come ha ammesso anche lui nel dopo gara. È stato inevitabile pensare che, magari, se avesse giocato almeno un torneo sui links in preparazione all’Open Championship le cose sarebbero potute andar meglio. Non esiste la controprova, naturalmente. Però le scelte di programmazione, con soste così lunghe da un torneo all’altro, non mi sembra si stiano rivelando felici. Questo calendario compresso probabilmente non gli piace (come a tanti altri campioni e nemmeno a me) e il fatto di vivere a Londra, ma giocando sempre negli Stati Uniti per più di tre quarti di stagione, non lo aiuta. Però, essendosi ormai insediato stabilmente fra i primissimi del mondo, fossi in lui “marcherei” più da vicino i Koepka, i Rose, i McIlroy, che stanno giocando con maggior frequenza. Vivere in America renderebbe tutto più semplice. Ma sono scelte delicate, che coinvolgono la vita dei tuoi familiari. E, di certo, non sono facili da prendere.

Da “Il Mondo del Golf Today” n° 304 – agosto-settembre 2019

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